Ciao a tutti e tutte!
Mentre dall’Italia mi
giungono notizie di un caldo asfissiante, qui siamo in “inverno” e momenti più
caldi si alternano a piogge brevi ed intense (molto intense…), che tengono la
temperatura a livelli gradevoli.
Quindi per invidiarvi
aspettiamo agosto – settembre, quando da voi le temperature inizieranno a
calare e qui avremo il tempo della “secca” che io ancora non conosco, ma che
dai racconti che ascolto non mi pare molto gradevole.
Vengo da una settimana
tranquilla, continuando i primi passi da parroco con una serenità che non
credevo di avere; ieri sera d. Gabriele è tornato dal viaggio sul fiume, sempre
ricco di nuove idee da realizzare, che mi danno forza ed anche un po’ di mal di
testa…
Come succede ad ogni
nuovo parroco, le prime cose che arrivano sono le lamentele, le cose che non
vanno, quelle che sarebbero da fare, etc etc etc… Grazie a Dio l’esperienza
italiana nell’Unità Pastorale “Gioia del Vangelo” mi ha insegnato che non sono
qui per risolvere i problemi (neanche Gesù li ha risolti, quindi…), ma per
starci dentro con un po’ di amore del Signore.
Ora ascolto e tanto dovrò
ascoltare. La comprensione del portoghese è realmente il primo compito: sto
scoprendo che ho attorno a me tanti buoni maestri, che non mi esentano
dall’impegno dello studio, ma continuamente mi consentono di esercitarmi ed
aggiungere ogni giorno un pezzettino.
Credo che tante volte
nella vita siamo circondati da buoni maestri, ma non sempre li vediamo perché
pensiamo di non averne bisogno.
Fra le cose più
significative e toccanti vi è stato il ritorno al carcere, che non visitavo da
prima della partenza. Ora è pieno in modo impressionante: la stanza più grande
accoglie dodici uomini, la piccola nove, con amache su più piani per dormire.
Ora la temperatura è accettabile, ma quando verrà il caldo sarà molto dura.
Ho ritrovato facce note,
uno di loro è dentro quella stanza da due anni: sono persone “in attesa di
giudizio”, ma questa attesa può essere molto lunga.
Fra le facce nuove,
quella spaurita di un diciottenne, Eduardo: “hai amici?” - “no, vivo con mio
padre”; “hai avuto problemi con la droga?” – “no” (sembrava sincero). Ci siamo
accordati che quando uscirà – spera la prossima settimana – passerà in parrocchia:
di certo non abbiamo una soluzione, ma forse un po’ di amicizia buona potrà
trovarla.
Poi, semplici chiacchiere
alla sbarra, preghiere e canti (che tutti conoscevano benissimo...), consegna
di alcuni libri, una fetta di torta ed una bibita. Gli ho raccomandato il
giovane convivente: “in questo momento avete un figlio, trattatelo con cura”.
Mi hanno chiesto una piccola cassa amplificata, perché quella che hanno è
rotta: sapendo quanto può rilassare ascoltare un po’ di musica il giorno dopo
l’ho fatta avere.
Volevo parlarvi di una
cosa che può sembrare banale, ma che mi sta facendo riflettere molto: i cani di
S. Antonio.
I cani? Perché?
S. Antonio è piena di
cani che vivono in strada; alcuni sono di famiglie, altri forse fanno
riferimento a qualcuno (come il nostro Miguel, che pur mancando di un occhio si
è autoproclamato guardiano della parrocchia), molti sono semplicemente per
strada.
Quello che impressiona è
la loro integrazione nell’ambiente sociale. Sono rispettati (dormono
tranquillamente in mezzo alla strada…) e - al di là delle feci sparse qua e là
– non creano problemi particolari: sono parte della società cittadina e
convivono pacificamente con la componente umana. Nessuno ha paura di lasciare i
bimbi in giro perché “ci sono i cani…”.
Facevo il paragone con
quanto succede da noi se in paese gira un cane senza collare.
In un primo momento è “un
cane”, poi diventa un “cane randagio” – con il secondo termine più accentuato -
poi diventa un “randagio”, perdendo la sua identità di cane e tenendo solo il
termine dispregiativo (vi ricorda qualcosa in campo umano?).
Poi arriva l’allarme su
facebook con commenti non citabili, poi le guardie comunali, i pompieri e se è
il caso i carabinieri… Tutto questo nonostante che le cronache parlino più
spesso di bambini uccisi da “Fido” domestici un po’ cresciutelli che da cani
randagi.
Ed intanto il cane
randagio è solo, magari affamato, spaventato, braccato… e diventa aggressivo, e
tutti pensano che l’allarme sia più che giustificato e che il “randagio” non
debba esistere perché inevitabilmente cattivo.
I cani italiani ed i cani
di S. Antonio non hanno DNA diverso: l’unica differenza è che uno viene
preventivamente escluso e considerato pericoloso (e quindi lo diventa), l’altro
è integrato nel vivere sociale, anche accettando le problematiche che la sua
presenza può dare (e quale presenza non genera problemi?).
I risultati dei due
atteggiamenti sono molto differenti ed anche un anti-cinofilo come il
sottoscritto ha iniziato a guardare i cani con simpatia, forse perché qui
possono fare i cani come Dio comanda.
No, non sono diventato
improvvisamente cinofilo: penso abbiate già capito cosa sto dicendo, perché
quello che avviene con i cani avviene anche con altre creature, ad esempio gli
uomini.
Forse parlare di cani ci
aiuta a cogliere il pericolo che viene non dalle persone, ma dalle dinamiche di
paura ed esclusione che generano uomini e donne considerati non-persone (non
vengono nemmeno più indicati come tali, ma solo come “clandestino”, “drogato”,
“prostituta”, etc…)
Forse parlare di cani
“randagi e quindi pericolosi” ci aiuta anche a cogliere come un popolo può
arrivare ad accettare la guerra, addirittura quella “preventiva”, le stragi, la
nullificazione dei suoi fratelli e sorelle in umanità. Forse riguarda anche
noi.
Il Signore ci accompagni
tutti!
d. Paolo
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