Ciao a tutti e tutte!
Vi scrivo al termine di una settimana che con un termine gentile definisco “intensa”, ma con cuore reggiano posso dire “pesante”, caratterizzata da lezioni ed incontri (chiaramente in portoghese) che hanno riempito le nostre giornate, senza lasciarci molto respiro. Ne vale la pena, anche perché sono le ultime settimane e visto che ora iniziamo a capirci qualcosa, vanno vissute intensamente, ma non posso negare che alla fine la testa è proprio stanca… É una fatica che non conoscevo: vivere in un ambiente ove capire e parlare è un impegno, ove il collegamento fra l’interiorità del cuore e della mente e l’espressione nelle parole (ed anche nei gesti) non è spontanea, ma chiede una mediazione laboriosa e non sempre coronata di successo. Fino ad ora potevo dire: non conosco la lingua, mi tiro fuori e pace…; ora che conosco (poco) il portoghese non posso più dirlo, comincio a mettermi dalla parte di chi vuole e deve capire e parlare ed è un impegno grande. È chiaro che non posso evitare di pensare agli amici egiziani coi quali ho vissuto a Campegine ed a tutti i nuovi italiani che vivono in mezzo a noi, che per anni vivono questa fatica e spesso senza gli aiuti necessari, ma anche a tutte le persone con difficoltà comunicative ed a chi non ha gli strumenti culturali per poter dire e “potersi” dire…
Guardo con una certa preoccupazione anche ai giovani partecipanti al nostro corso, che ancora non sono religiosi e sono stati mandati qui a fare il loro cammino di formazione: Mingh e Dingh che vengono dal Vietnam, Francisco che viene dal Togo, altri che sono già un po’ più strutturati di loro, ma ancora giovani. Penso ai giramenti di testa e di cuore che io vissi negli anni di formazione in seminario e nei primi anni di ministero: grazie a Dio avevo vicino formatori e uomini di fede capaci di capire anche le parole che non riuscivo a dire… Loro come faranno a parlare della loro interiorità con formatori e con un popolo del quale conoscono appena la lingua e che non conosce la loro cultura, i loro significati, il loro modo di vivere la fede?.. mah… Ci sono scelte anche all’interno della chiesa che mi lasciano per lo meno perplesso…
Penso anche ai nostri dialoghi “normali” fra italianissimi e cristianissimi: forse tante volte diamo troppo per scontato di capire quello che ci viene detto e non mettiamo in dubbio le nostre interpretazioni. Abbiamo sempre bisogno di imparare la lingua dell’altro.
Nella nostra struttura questa settimana abbiamo anche avuto un corso di formazione sulla missionarietà per preti provenienti da tutto il Brasile. Fra questi “ospiti” si notava uno con uno strano cappellino in testa, tipo vescovo o papa, che non concelebrava. Un po’ casualmente mi sono trovato a parlare con lui, che ha un ottimo italiano perché è stato in Italia alcuni anni. Ho così scoperto che lo strano copricapo era una kippà ebraica: di nazionalità israeliana (lui dice “israelita”), è uno dei pochissimi giudeo-cristiani esistenti. Cosa significa “giudeo-cristiano”? Non è un ebreo diventato cristiano abbandonando l’ebraismo (non avrebbe più la kippà), ma un ebreo che rimane nella fede ebraica e crede che Gesù è il Figlio di Dio, che ha salvato il mondo. Erano così anche gli Apostoli, Paolo ed i primi cristiani: ebrei che continuavano a frequentare il tempio e la sinagoga e si riunivano per l’Eucaristia. Solo in conseguenza della cacciata da parte degli altri ebrei, questa forma primitiva di cristianesimo cessò. Quindi, un cristiano come lo erano i primissimi crsistiani.
Essendo lui israeliano, o israelita che dir si voglia, non ho potuto evitare di chiedergli qualcosa sulla situazione di Gaza. La risposta mi ha raggelato: “noi siamo sempre stati in guerra, ho cinquant’anni ed ho visto stragi di migliaia di uomini delle quali non ha parlato nessuno… l’unica differenza di Gaza e che se ne parla… e poi Gaza non è né Palestina né Israele…, per noi è lontana”.
Bello essere Ebrei, bello essere Cristiani, ma sarebbe più bello essere innanzitutto uomini.
Questa settimana ho fatto un’ultima cosa, che dice che sono molto in forma: ho fatto una bella brontolata, ma con tono razionale e garbato, direi quasi “alla brasiliana”.
Dopo aver rimuginato dentro, cosa che fa piuttosto male, mi sono deciso ed ho parlato con i responsabili del corso. Di cosa? Non certo dell’accoglienza, che è ottima, e nemmeno della scuola o della formazione, che è di buona qualità: ho parlato della chiusura dell’ambiente in cui siamo, perché può succedere che anche in un ambiente missionario si viva distanti dal mondo e da quanto avviene. Qui succede un po’ questo: non c’è un giornale, non di parla mai del mondo esterno e di quanto sta avvenendo, non c’è una preghiera dei fedeli che ricordi le situazioni attuali… La stazione marziana di Musk sarebbe più vicina al mondo reale.
Anche un ambiente missionario, anche una parrocchia, può avete un grande impegno per se stesso e per assolvere i propri compiti, ma senza avere l’apertura del cuore che guarda il mondo con le sue speranze e grandissime sofferenze e le mette davanti al Signore.
Mi ha fatto piacere il fatto che ho trovato un ascolto sincero ed interessato: loro hanno assunto l’incarico da poco e stanno pensando alla forma che vogliono dare a questa preziosa esperienza. Quindi la brontolata potrebbe essere servita.
Mi fermo qui: mi riposo un poco, perché anche le prossime settimane saranno intense. Ringrazio sinceramente il Signore per quello che sto vivendo, perché l’incontro con tante realtà e culture è un dono riservato a pochi, ed io sono uno dei pochi (però lo siete anche voi, se guardate alle culture che vivono nei nostri paesi e provate ad incontrarle un po’)
Vi lascio le foto di due notturni di Brasilia ed aggiungo il filmato di un diurno di Gaza: mi sono proposto di usare questo gruppo solo per parlare del Brasile e cerco di tenere fede a questo proposito, ma non possiamo chiudere gli occhi davanti a questo immane disastro che ci succede davanti.
Il Signore ci accompagni!
d. Paolo
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