È un privilegio, una grazia speciale passare queste
ore sulla barca, attraccare a un albero su una riva di un lago, di una palude,
di un rivolo, lontano da qualsiasi abitazione, senza luce elettrica, senza i
suoni stridenti della città, udendo solo il concerto di rospi e rane, orchestra
di mille flauti e cicale, versi di uccelli notturni che non feriscono il silenzio.
Trovarsi nel nulla del nulla. Gli alberi e le sponde diventano sempre più fitti
man mano che ci si avvicina al confine colombiano e le case sempre più rare. Il
vento culla le chiome frondose degli alberi centenari. Alcuni sono in fiore. Un
luccicante giallo e un delicato lilla risaltano nel verde scuro. E le stelle,
così vicine che sembra di poterle prendere con la mano, si specchiano
nell’acqua come scintille silenziose e saltellanti. Che silenzio, profondo,
misterioso, divino. La linea della foresta spacca l’orizzonte. Se non ci
fossero gli alberi non distinguerei davvero l’acqua dal cielo.
Senza
sosta andiamo visitando le varie comunità, senza far caso ai venti, alle
piogge, alla piena e ai problemi che la barca ci dà. Alcune comunità ci
attendono e ci accolgono, perfino con petardi e fuochi d’artificio, in altre si
fa più fatica a incontrare le persone perché impegnate nel lavoro o nella pesca...
L’attesa è già una questione spirituale. L’attendere è già una presenza.
I
primi giorni in queste comunità ammetto di averli vissuti con molta urgenza di
“dare in cambio qualcosa”: un racconto, un gioco, un dono… Ma presto sono
arrivata a capire che questo baratto non
è necessario. Stando insieme alle comunità capisco che è solo richiesto che IO
SIA in ascolto con il cuore aperto. Importa solo il COME sei, il CHI non
importa a nessuno.
C’è
un verbo portoghese, “mergulhare” in acque profonde, ovvero andare sempre più
in profondità a questa misteriosa esistenza. In pochi metri di foresta esiste
un numero di specie, di animali e di piante e insetti maggiore che in tutta la
fauna e flora europea. La natura sembra avere una propria intenzionalità.
Questo popolo custodisce una sapienza antica e profonda che integra vita e
morte, essere umano e natura, rende compatibili lavoro e divertimento, in
sintonia tra cielo e terra. Una terra dove il mito non è racconto ma realtà,
dove le storie quotidiane sono popolate di animali fantastici, dove i “pajè” (uomo del sacro e dei misteri capace di
curare con le piante della foresta) custodiscono questa sapienza
ancestrale. In questo senso, questo popolo è altamente civilizzato per quanto
tecnologicamente primitivo. Qui l’invisibile fa parte del visibile.
“Mergulhar
na vida”, vuol dire però anche entrare sempre più in profondità in dinamiche di
ingiustizia e corruzione disarmante.
Lo
sfruttamento irrazionale della terra e del lavoro non riguarda solo il povero,
ma anche la natura. Il protrarsi della devastazione delle foreste e della
biodiversità mette in pericolo la vita di milioni di persone, in particolare
quella dei giovani in cerca di futuro, che vengono spinti verso terre di bassa
qualità o nelle grandi città, come Manaus, dove si trovano a vivere ammucchiati
in miserevoli periferie rimanendo soli. La crisi culturale si manifesta da un
lato come una crisi di senso e dall’altro come fondamentalismo, che si esprime nelle
ramificazioni delle grandi religioni e nelle ideologie politiche. Il valore
della vita è bassissimo: il credere superstizioso “nel paradiso” fa sì che la
sofferenza, l’ingiustizia e la morte non vengano riconosciute come tali e non
abbiano il loro spazio di comprensione. Il conflitto è quotidiano e spesso
violento: genitori in lite con i figli, figli in lite con i cognati, mogli con
le suocere, nonni che non vogliono che i padri incontrino i figli, le madri che
lasciano i figli per relazioni con ragazzi più giovani. Relazioni che si alternano
come si cambia un paio di ciabatte, bambini che spariscono, forse venduti al
mercato internazionale di organi, cacciatori d’oro, abbandoni, incesti… E in
tutto questo… L’omertà del popolo per non incorrere nel pettegolezzo.
Il
maschilismo è fortissimo: le autorità proteggono e difendono il maschio. Tutto
ruota attorno agli interessi di una potente oligarchia a caccia di guadagni
immediati. I politici si scelgono in base a chi potrebbe vincere, non in base a
chi si fa carico del bene per la tutta la comunità. C’è paura di denunciare.
Perché ci si dovrebbe ribellare se poi non c’è un sistema che ti sostiene? Ciò
che chiamiamo giustizia nei nostri paesi è una giustizia formale, lenta e
costosissima, che opera lontano da luoghi come questo e non permette ai poveri,
che non conoscono i sistemi legali e non riescono a pagare avvocati competenti,
vedere garantiti i loro diritti minimi e riconoscerli come tali. Calunnie,
diffamazioni, minacce di morte sono le armi che vengono utilizzate per chiudere
la bocca a chi alza troppo la voce … Ma non si può tacere.
Mi
chiedo chi è povero. Lei, lui, o io? Loro non sanno né leggere né scrivere. Io
ho due lauree, un master e diversi corsi di perfezionamento. Ma le persone che
incontro qui sanno pescare, seminare, costruire, nuotare, leggere la natura
meglio di me. Ci sono donne giovanissime capaci di tirare su 9 figli e rimanere
bellissime. Come si misura la povertà? In intelligenza? In denaro? Forse la
povertà si misura in termini di ingiustizia. La quantità di ingiustizia che deve
vivere e sopportare una persona innocente. E quando queste ingiustizie sono
considerate normali è il peggiore dei casi. È
dunque questo che chiamano vocazione? La cosa che fai con gioia come se avessi
il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo? Se le comunità cominciassero
insieme a fare una resistenza di massa, dire NO ai “garimpo” illegali
(estrazione illegale dei minerali), allora forse smetterebbero. Lavoriamo
sull’onestà.
Questa
terra è la concreta conseguenza di ciò che ha generato la logica del
capitalismo: il lavoro è lavoro. I garimpero brasiliani cercano l’oro
illegalmente a discapito dei governi europei. I poveri vengono sfruttati a
rotazione come forza lavoro: si guadagna di più con l’oro che con la semina, ma
a discapito degli altri. Ognuno pensa al proprio interesse, non al bene per la
vita della comunità, del fiume e della foresta. Ed è anche questo il
capitalismo: l’importante è che ci sia sempre un gruppo di lavoratori attivo e
chi non ha un possedimento economico valido può soccombere perché è inutile
alla società. L’accumulo di denaro, a cui si sacrifica tutto, a cominciare da
se stessi, porta le persone a diventare sempre più insensibili nei confronti
del prossimo perché questa schiavitù
anestetizza la capacità di attenzione e compassione. E noi incontriamo queste
famiglie, inventando riti e raccontando storie di resistenza, ingiustizia e
libertà, da Gesù al Re Mida passando per fiabe africane. Siamo ridicoli? Forse.
O forse no. Partendo dalla più grande storia di ingiustizia, un innocente messo
in croce, ci diciamo che la morte non è mai l’ultima parola, e neanche
l’ingiustizia, cerchiamo di far capire che il proprio interesse personale non
può essere sempre e soltanto la cosa primaria. L’oro luccica, ma porta solo
fame.
“Parli
facile tu che sei ricco, ma io sono povera. È più importante il lavoro
dell’amore.” Ma se il lavoro non ti gratifica, se degrada la tua salute, saccheggia
la tua terra e la tua vita e se questo lavoro legittima la gerarchia e la
corruzione, non è un lavoro. È sfruttamento. È schiavitù. La convinzione che
l’unico miglioramento possibile sia quello individuale è una illusione. Il
culto della carriera, la competizione con i colleghi, la ricerca ossessiva di
gratificare i superiori ci rende divisi. E quando siamo divisi ogni nostro
diritto è sotto attacco. Il lavoro migliora l’uomo e la vita con l’aiuto
dell’altro e di una comunità, non con la corruzione e la disonestà.
Affinché
ci possa essere parità e uguaglianza, è necessaria una Legge che sia garante di
questi diritti e che venga rispettata da tutti. Se questa manca, allora
mancherà sempre la giustizia in queste case. Non è facile, soprattutto quando
si scopre che perfino le istituzioni più stimate sono corrotte, come ci
racconta Gabri Carlotti nella sua ultima lettera. Violenza che genera violenza,
morte che viene vendicata da altra morte (non ci sono statistiche affidabili
sui casi di morte violenta). Sembra proprio che tutto questo non abbia fine.
Questa
realtà ci sbatte in faccia l’effetto collaterale di questa nostra società che
ci vuole divisi, nuclei, in conflitto. Una società che ci tiene insieme con la
paura e ci dimentichiamo del valore della libertà. “Non abituatevi a tutto
questo! Non abituatevi!”… Eppure continuo ad essere fermamente convinta che
nessun potere, nessuna forza, nessuna ingiustizia può vincere sulla vitalità e
sull’amore che una persona può vivere e donare, proprio perché unica
irripetibile e capace di creatività. Queste persone non hanno potuto scegliere
certo il loro destino, il luogo del mondo in cui nascere, o la famiglia
sgangherata in cui crescere, ma possono e desiderano dare un senso alla loro
vita e alla loro morte. E noi con loro. Non
temere, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te, risuona
ancora la voce del profeta.
E
mentre ci lasciamo alle spalle il confine colombiano prendendo la rotta verso
Sant’Antonio, con un martello pneumatico di domande senza risposta nella testa,
ancora una volta guardo il cielo: e la natura parla. Vedo due arare, sono
uccelli con ali lunghe e strette che si vedono mentre si attraversa il fiume.
Sono uccelli che volano sempre in coppia. Gabri mi racconta che una volta che
si guardano, si scelgono e da quel momento volano per sempre insieme. Il loro
volo si distingue dagli altri perché tracciano traiettorie sincroniche in
parallelo. Le loro curve sono così perfette che sembrano lineari. La libertà
del volo di una comincia con la libertà del volo dell'altra. E allora la natura
risponde: sì, è possibile fare scelte coraggiose e rimanere nella semplicità.
Riconoscere il sentimento, che sia rabbia o amore, riconoscerne il valore e
scegliere che direzione darci. È possibile scegliere l’onestà e la libertà.
Condivisa.
Lo
stupore e la gioia più grandi sono proprio nel vedere la nascita di luoghi
nuovi in questa terra. Se non c’è lo spazio, lo si crea. Dove c’è una urgenza,
si risponde alla necessità. “Padre, vorremmo una chiesa in comunità!”, “Facciamola”.
“Padre, non c’è una scuola!”, “ Vi aiutiamo”. “I garimpos ormai hanno
avvelenato tutto il nostro lago”, “Avete bisogno di acqua? Vi diamo una
cisterna con depuratore per l’acqua piovana, che è sicuramente più sana di
quella del fiume”. I discorsi oggi dominanti affermano che non c’è alternativa
al capitalismo, che le utopie non hanno più senso e che la storia è arrivata al
capolinea. Sono discorsi di autogiustificazione e disperazione che infieriscono
sui poveri! Generano pessimismo e depressione. La speranza nasce quando le
vittime cominciano a parlare, ad agire, a organizzarsi per conto proprio;
quando i missionari si fanno presenti in mezzo al popolo, rinunciando ai
vantaggi della propria classe sociale, accompagnando i processi di
organizzazione, aiutando a cancellare il sentimento di incapacità; quando si
danno delle opportunità per essere un inizio nuovo. La speranza ci dà le
ragioni e la forza per decidere tra un presente imprevedibile e sofferente e un
esodo verso un futuro imprevedibile e rischioso. Vivere nella speranza ha i
suoi rischi: esige presenza, visione e intervento. Siamo attori…sociali. Camminare,
ascoltare e agire. È questo che mi insegna ancora l’Amazzonia. La fede, prima
di essere teologia, prima di essere credo e religione, prima di essere
filosofia, prima di essere cultura, prima di essere tutto quel bagaglio di
conoscenza che se fine a se stessa non serve a nulla, è incontro e presenza.
Comunità di Vista
Alegre, ultima notte in barca. Alle 4 del
mattino sentiamo dei petardi e una barca, con le sue luci abbaglianti, ci
sveglia. Ci alziamo tutti e tre per capire cosa sta succedendo. Sono arrivati
degli uomini della comunità con il materiale per costruire la chiesa. Gabri si
alza a guardare chi è: “Beh io non lavoro adesso… fanno poi loro…” e torna a
letto esausto. Prima di richiudere gli occhi mi fa “é la vita mia cara…” e
torna questo mantra. Rido. È la frase ricorrente in queste settimane. Ma ormai
non si dorme più. Non siamo allenati come gli abitanti della foresta. Ci
alziamo alle sei e riprendiamo il viaggio. Solchiamo il fiume. Alzando gli
occhi non si vede il sole, ma i suoi raggi giocano con le foglie sui rami più
alti. “Di tramonti ne vediamo tanti… ma di albe poche…”. Tainà, dice Gabri. È la parola che si grida
quando il sole sorge: vogliamo essere un mondo nuovo, né primo né terzo, un
mondo secondo e fraterno. Si, è la vita.
Anna
Chiara e Gabriel,
missionari dell’Amazzonia
Santo
Antonio do Içá, 12 maggio 2023 – mese di Maria e di tutte le mamme
Nessun commento:
Posta un commento